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giovedì 4 maggio 2017

Schiavitù romana (1/2)

[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è molto utile la lettura della mia Epitome (V. 0.2.1). In particolare i capitoli: 3, 5, 6 e 7.

Era da molto tempo (v. Il soldato romano) che avevo promesso di scrivere un pezzo sul saggio sugli schiavi che fa parte della raccolta «L'uomo romano» a cura di Andrea Giardina, Editori Laterza, 1993.
Il motivo è semplice: si tratta di un articolo che sapevo impegnativo e che mi avrebbe richiesto non solo molto tempo ma anche fatica. Il saggio “Lo schiavo” di Yvon Thébert è infatti ricchissimo di informazioni che però non sono espresse nella maniera che preferisco: mi sarebbe piaciuta una chiara progressione cronologica mentre l'autore affronta aspetti diversi dello stesso argomento (ovvero la schiavitù) ogni volta ripercorrendone l'evoluzione storica limitatamente a tale lato. In questa maniera c'è un po' di sovrapposizione di idee che tende a confondermi.
Intendiamoci: il saggio è magnifico e, ad esempio, quasi ridicolizza quello successivo sui “Liberti” (*1) che appare superficiale e limitato.

Diversamente dal solito non scrivo questo pezzo sfogliando le mie note segnate a margine delle pagine del saggio: data la sua complessità ho preferito prepararmi degli appunti e, basandomi su questi, stabilire quali argomenti e come trattarli.

Ho deciso di seguire un criterio cronologico riassumendo per ogni periodo gli elementi che ritengo più interessanti (ma tralasciandone altri). Oltre alla panoramica sulla schiavitù nel mondo romano voglio anche evidenziare un paio di aspetti collegati alla mia epitome: una conferma e un interessantissimo parallelo moderno.

Attenzione! di seguito non mi limito a riassumere il saggio affiancandogli le mie idee ma, per motivi di spazio e semplicità, tenderò a fondere tutto insieme.

Fino al III secolo a.C
La schiavitù già esiste ma è a un livello famigliare. Ogni famiglia possiede un paio di schiavi ma questi lavorano la terra insieme al padrone.
È l'epoca del romano contadino, con tutti i cittadini che, in base al censo, sono anche soldati in caso di necessità. Proprio in virtù della sovrapposizione fra esercito e popolo si tratta del periodo in cui il potere dei comuni cittadini è massimo e, conseguentemente, quello dei parapoteri del tempo, ovvero dell'aristocrazia, è minimo (*2).

II e I secolo a.C
In questo secolo si ha un cambiamento radicale e l'economia romana inizia a basarsi massicciamente sulla schiavitù. Ma a cosa si deve tale cambiamento? L'autore del saggio è uno storico serio e non si sbilancia con teorie che non può provare o documentare e quindi non si pone la domanda. Eppure per me (che del resto non sono né uno storico né serio) la risposta è evidente.
Come al solito l'elemento che cambia faccia alla società romana è la seconda guerra punica che, ricordiamolo, si conclude alla vigilia del II secolo a.C., ovvero nel 202.
Tale guerra determina infatti numerosi cambiamenti: 1. L'allargamento territoriale porta all'esigenza di un esercito di professionisti visto che un comune cittadino non può permettersi di stare anni e anni lontano dal proprio podere; 2. Il gruppo aperto e subordinato ([E] 3.2) dei cittadini perde forza in quanto il potere militare non si identifica più con esso; 3. si forma quindi un nuovo gruppo, aperto e subordinato, quello dei soldati professionisti; 4. per il parapotere del tempo, il gruppo chiuso e autonomo ([E] 3.2) dell'aristocrazia senatoria, è facile usare il gruppo dei soldati (ovvero l'esercito!) per accrescere il proprio potere: Roma diventa così una potenza imperialista e le grandi ricchezze ottenute con la guerra vengono in gran parte spartite fra l'aristocrazia mentre al popolo toccano le briciole; 5. Progressivamente aumenta quindi la forza dei parapoteri e diminuisce quella del popolo.

Il bottino di guerra non consiste solo in oro e gemme ma anche nei prigionieri che vengono venduti come schiavi.
Come insegnano le leggi del potere ([E] 5) ogni gruppo sociale cerca di divenire più forte ma, in questa corsa, i parapoteri sono favoriti e tendono ad accordarsi fra loro ai danni dei più deboli.
Nello specifico caso romano i parapoteri sono le varie famiglia dell'aristocrazia senatoria che, insieme, controllano gran parte del potere politico e, quindi, militare.
Grazie alla loro maggiore disponibilità economica acquistano più schiavi ai quali fanno coltivare le proprie terre. Col tempo i contadini liberi non possono competere: i latifondi crescono.
Il tentativo dei Gracchi di ridistribuire le terre al popolo fallisce (ovvero il potere politico passa da un esponente “populista” ai soliti parapoteri) pochi anni dopo la loro morte.

Ma le condizioni di vita degli schiavi non sono più quelle del III secolo: con pochi schiavi inseriti nell'ambito famigliare. Si hanno invece delle “fabbriche rurali organizzate con disciplina paramilitare”. Lo schiavo non solo vive male ma non ha un suo spazio nei protomiti ([E] 2 e 6) che definiscono la società romana: il suo desiderio non è quindi quello di divenire un romano ma di fuggire e tornare nelle proprie terre natali.
È chiaro che gli schiavi di questo periodo siano un elemento fortemente instabile della società romana: le rivolte del II e I secolo a.C. non sono un caso. Invece, nei secoli ancora successivi, gli schiavi che scapperanno dal padrone malvagio non cercheranno di organizzare rivolte (come vedremo non avrebbero avuto successo) ma diverranno briganti, ovvero si porranno in totale opposizione alla società romana (cioè fuori di essa) ma senza più una propria identità culturale di gruppo.

Ma come sappiamo ogni società cerca di salvaguardare la propria stabilità ([E] 7.1) e questo significa che l'instabilità del gruppo degli schiavi doveva essere gestita in qualche maniera.
Di nuovo le leggi del potere ci indicano la strada: la prima legge dice che ogni potere vuole conservare la propria forza e, per quanto piccola, teme di perderla. In senso lato questo significa che concedendo al gruppo degli schiavi un po' di forza questi avrebbero cercato di conservarla. E in cosa consisteva tale “forza”? In migliori condizioni di vita, libertà e speranza: questi elementi, che come al solito sono nella loro essenza dei protomiti, definivano una piccola nicchia nella società romana alla quale lo schiavo poteva sentire di appartenere.
Se lo schiavo crede nei protomiti che definiscono il suo ruolo sarà molto restio a ribellarsi perché il rischio di perdere tutto è troppo alto. Certo, gli schiavi con padroni avidi e brutali erano coscienti che non sarebbero stati liberati ma sapevano anche che la maggioranza degli schiavi appartenenti ad altri padroni non si sarebbero schierati dalla loro parte: a questi schiavi oppressi non rimaneva che la fuga e non certo la rivolta.
Ma inizialmente, appunto nei secoli II-I a.C., ancora questi protomiti non si erano ancora formati e gli schiavi erano spesso degli individui che non si sentivano appartenenti alla società romana e che non avevano niente da perdere a ribellarsi a essa (v. anche il corto La rivolta dei forconi in Sicila).

Ma gli schiavi non lavorano tutti nella “aziende rurali” che producono monoculture o nelle aziende artigianali organizzate come catene di montaggio: ci sono anche quelli a cui viene affidato un podere più piccolo, magari fuori mano, e che ovviamente hanno più autonomia e migliori condizioni di vita; oppure quelli più istruiti ai quali vengono affidati anche incarichi importanti di gestione del denaro (*4); oppure quelli che vivono a stretto contatto col padrone e ne divengono intimi.
Col tempo gli schiavi hanno sempre più spesso compiti di rilievo sia di autonomia decisionale che di gestione delle ricchezze del padrone.
La legge, come al solito, sancisce e legittima con i propri protomiti, ovvero le leggi, la complessione ([E] 3.3) della società. Inizialmente gli schiavi erano considerati alla stregua di bestiame mentre in seguito gli viene riconosciuto il diritto a un proprio patrimonio e, addirittura, al diritto di possedere altri schiavi. Hanno autonomia decisionale quando gestiscono degli affari per conto del padrone (che la legge considera vincolato dalle azioni manageriali del suo schiavo) e non devono ubbidire più ciecamente al proprio padrone quando gli viene richiesto qualcosa di palesemente illegale.

Contemporaneamente lo Stato romano rafforza l'antico istituto della manumissione (l'atto con cui il padrone liberava il proprio schiavo) fornendo nuove possibilità agli schiavi, come la carriera militare, e con piccole tutele nei confronti dei padroni. Il motivo, è bene ripeterlo, non è la pura bontà ma la necessità di stabilizzare questo particolare gruppo nella società romana.

Conclusione: nella prossima parte vedremo cosa accadde nel I e II secolo d.C. ed evidenzierò il parallelo col mondo moderno che mi ha così colpito...

Nota (*1): un saggio che sembra essere basato quasi esclusivamente sulla figura del liberto che si ha nel Satyricon di Petronio e che poi è stato artificialmente esteso ai liberti in generale. In realtà questo saggio aggiunge ben poco a quanto accennato sui liberti dal precedente sugli schiavi!
Nota (*2): sebbene comunque preponderante!
Nota (*3): non sono pochi gli esempi di figli di liberti che divennero senatori.
Nota (*4): i ricchi infatti si fidavano più di uno schiavo (che potevano, ad esempio, sempre torturare in caso di dubbio) che di un uomo libero.

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