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giovedì 29 giugno 2017

Un consiglio rifiutato

Oggi un piccolo ricordo personale. Come scrissi in Nostalgie varie avevo un bellissimo rapporto con la mia zia paterna (cioè sorella di mio padre) Miriam. Avevo sempre provato una grande simpatia per questa zia che vedevo poco perché abitava in un'altra città ma, in pratica, la conobbi veramente solo dopo il liceo, quando mi ospitò per circa un anno durante il mio primo anno di università (v. Memoria, passato e destino (1/3) e (2/3)).
Anche per la dolorosa situazione famigliare da cui venivo, i miei erano praticamente separati in casa e in litigio continuo, mi sembrò un paradiso stare da lei: gli zii erano sempre allegri e sereni, comprendevano il mio umorismo, parlavano la mia lingua e sembravano rappresentare l'ideale di famiglia che i miei non erano stati capaci di essere.

All'epoca avevo forse raggiunto il mio massimo livello di asocialità eppure con mia zia non chiudevo bocca e parlavo e parlavo... sempre di sciocchezze superficiali, ma era comunque un fatto sorprendente. In quel primo anno per la prima volta mi venne un po' di pancetta: per tutto il liceo ero stato magrissimo, praticamente scheletrico, ma dagli zii iniziai a mangiare. Non solo perché mia zia cucinava bene ma anche perché i pranzi erano occasioni piacevoli per stare tutti insieme: credo che il mio aumento di peso fu sintomatico del miglioramento del mio umore.

Ma di tutto questo ho già scritto. L'ho solo ripetuto per far capire il contesto che in questo caso è importante.
Se la zia fosse stata una dottoressa che mi guariva quale quale avrebbe dovuto essere la sua terapia? Apparentemente farmi parlare e parlare: ma quali conclusioni traeva dalle mie parole?
Se io fossi stato al suo posto cosa avrei fatto?

Credo che avrei osservato il mio “paziente”, avrei cercato di capire quali fossero i suoi principali difetti e i suoi pregi; avrei cercato di capire i suoi interessi e avrei cercato di farglieli sviluppare in maniera tale da stimolarne anche la socialità (che sicuramente era carente) spingendomi verso attività che mi mettessero in contatto con altre persone.

Questa sarebbe stata probabilmente la “terapia” adatta a me ma, per metterla in pratica, era necessario conoscermi. Invece i miei genitori non mi ascoltavano né mi capivano quindi, ammesso che pensassero di dover intervenire (*1), non avrebbero saputo come fare.

Ecco, un giorno mia zia buttò lì, con noncuranza, un'idea che io istintivamente rigettai: poi mi trasferii e poco dopo la zia si ammalò. A quella idea per molti anni non pensai più.
Poi un giorno mi tornò in mente (perché non dimentico niente di ciò che mi colpisce e il suggerimento della zia l'avevo trovato peculiare, mi avevo stupito e sorpreso) e capii ciò che c'era dietro la sua proposta: era stata brillante! Mi aveva osservato per bene, aveva capito ciò che mi piaceva, soprattutto aveva notato il mio lato creativo, ed era riuscita a sottopormi la sua idea in maniera naturale, senza destare i miei sospetti perché altrimenti, aveva capito il mio carattere, se l'avessi percepita come un'ingerenza mi sarei opposto a essa con tutta la mia caparbietà.

Qual era stata l'idea di mia zia? Mi aveva suggerito di fare un corso di regia cinematografica: all'epoca ero infatti fissato con i film e li seguivo tutti con attenzione (mi piacevano molto quelli australiani e neozelandesi!). Insomma c'era il mio interesse, c'era il potenziale per sfruttare la mia creatività e, sicuramente, sarebbe stata un'occasione per conoscere persone nuove.
Anche il mio rifiuto fu più automatico che ponderato: da qualche parte mi sembra di averlo già scritto ma la mia prima risposta automatica era “no”. All'epoca (*2) poi, nonostante che il cervello fosse più efficiente di adesso, ero convinto che ci volessero delle persone speciali per fare cose speciali e, per quanto mi stimassi, non mi ritenevo una di queste. Non avevo sogni né ambizioni perché pensavo di dover essere “realistico” e perché nessuno (vedi i miei genitori) mi aveva mai spinto a desiderare qualcosa (*3).
Però l'idea era buona e adatta a me: insistendo (solo la zia si sarebbe potuta permettere di farlo con me e se l'avesse fatto l'avrei ascoltata prendendola seriamente in considerazione: questa è la fiducia che guadagna chi sa ascoltare) un pochino, avrebbe potuto convincermi.

Il punto non è se sarei divenuto o no un bravo regista: non era quello lo scopo: era la “terapia” adatta a me in quel momento. Sicuramente mi avrebbe fatto bene e mi avrebbe reso una persona migliore di quanto non sia adesso. Chissà che direzioni avrebbe preso la mia vita...
Sfortunatamente in quello stesso periodo smisi di vivere dai miei zii e poco dopo la zia si ammalò gravemente: eppure mi chiedo come sarebbe andata se invece di essere suo ospite per un anno lo fossi stato per, diciamo, tre anni. La zia aveva gettato le basi per cambiarmi in meglio in una maniera che ai miei genitori non era mai neppure passata per l'anticamera del cervello...

Conclusione: pezzo inutile e noioso... ma mi era stato privatamente commissionato...

Nota (*1): Per mio padre un figlio era chiaramente come un fungo: una volta nato viene su da solo e non c'è bisogno di guidarlo o consigliarlo. Mia madre invece sarebbe intervenuta più che volentieri solo che di me capiva zero e, tutte le volte che prendeva qualche iniziativa, tranne rarissime eccezioni, otteneva l'effetto opposto.
Nota (*2): L'illusione delle persone speciali per posti speciali si è infranta molto tardi: quando sono andato a lavorare per qualche anno come esterno all'ESA (l'agenzia spaziale europea). Mi ero sempre immaginato dei cervelloni, la crema della crema delle menti europee: invece mi resi conto che il livello medio era di poco superiore a quello di una qualsiasi azienda (v. O tempora, o mores). Per entrare all'ESA più che le qualità contava il passaporto, il sesso e magari qualche pezzo di carta corrispondete a master o simili... Non solo: vi vigeva ormai da anni l'equivalente moderno del promoveatur ut amoveatur col risultato di incapaci che, seppur lentamente, facevano una carriera decisamente invidiabile nonostante la loro assoluta mediocrità.
Nota (*3): anzi, conoscendo mio padre, se gli avessi confidato un mio sogno si sarebbe subito affrettato a spiegarmi di quanto fosse irrealizzabile! Al contrario mia madre avrebbe invece reagito con un entusiasmo illogico che, invece di darmi sicurezza, mi avrebbe riempito di dubbi...

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