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lunedì 26 dicembre 2016

Promettente (2/2)

[E] Per la comprensione completa di questo pezzo è utile la lettura della mia Epitome (V. 0.06). In particolare i capitoli: 2, 3 e 5.

Beh, vediamo di concludere il pezzo precedente (Promettente(1/2)) lasciato, in verità piuttosto bruscamente, a metà.

Per chi non avesse letto il precedente articolo qui sto semplicemente elencando (quindi senza approfondire) i molti temi e spunti che ho incontrato nella sola premessa (!) di un saggio che ho appena iniziato a leggere: L'uomo romano di Andrea Giardina, Ed. Laterza, 1993.

Nell'episodio del colloquio fra l'ambasciatore romano Prisco e l'unno di origine greca c'è un terzo spunto interessante. L'autore (Andrea Giardina) spiega che tutte le repliche alle accuse al mondo romano da parte del greco sono piuttosto deboli, “convenzionali” ed “elusive” tranne una: il greco è divenuto libero fra gli unni solo grazie al caso, al suo inaspettato e fortunoso valore in battaglia (il greco non era un soldato ma un mercante) invece nel mondo romano gli schiavi hanno molte più possibilità di divenire liberi e non solo per volontà dei vivi ma anche dei morti tramite il loro testamento.
A me non pare una replica così valida: è sottinteso che nel mondo romano gli schiavi venivano liberati come premio alla loro fedeltà e ubbidienza. In altre parole venivano liberati se il loro padrone ne riconosceva e premiava i meriti e i servigi: ma anche questo non è arbitrio? Non è forse necessario un padrone onesto e giudizioso per valutare correttamente e premiare i meriti di conseguenza? Alla fine è sempre la sorte che decide chi sia il padrone di uno schiavo. Per una persona dotata di coraggio e valore mi pare preferibile rischiare la vita in battaglia in cambio della libertà effettiva piuttosto che attendere una vita di cieca ubbidienza per ottenere solo una libertà formale che, oltretutto, sarà goduta solo nella vecchiaia...

La premessa passa poi a esaminare il rapporto fra cittadino romano e schiavi e nota che (a partire da alcune versioni della leggenda di Romolo e Remo nati da una schiava (*1)) fra i due gruppi c'era sempre stata una certa osmosi. Avendo ancora ben presente in mente la lettura de La rivolta degli schiavi in Sicilia (v. il corto La rivolta dei forconi in Sicilia) mi chiedevo in quale modo la società romana mantenesse la propria stabilità (v. il capitolo 7 dell'epitome) e disinnescasse il pericolo di rivolta degli schiavi.
Adesso la spiegazione mi è evidente: 1. grazie a particolari istituzioni giuridiche (protomiti) che suggerivano la possibile libertà agli schiavi più meritevoli; 2. dando agli schiavi qualcosa da perdere (*2), ovvero permettendo loro di sposarsi e avere figli. Questi protomiti relativi allo stato giuridico degli schiavi danno vita a un interessante esempio di realtà multisoggettiva. Ci si potrebbe infatti chiedere cosa tenesse a freno gli schiavi i cui padroni fossero notoriamente crudeli e non liberassero mai nessuno: la risposta sono i padroni che invece seguivano quella che, evidentemente, era ritenuta la giusta morale del tempo ovvero premiare i propri schiavi meritevoli con la libertà. Se infatti la maggioranza dei padroni obbedivano ai protomiti del'epoca allora anche i loro schiavi probabilmente facevano altrettanto. Di conseguenza se gli schiavi senza speranza si fossero ribellati ai loro padroni crudeli e ingiusti non avrebbero trovato supporto dalla maggioranza degli schiavi: quindi sarebbero stati isolati, catturati e esemplarmente puniti. In altre parole il fatto che la maggioranza degli schiavi credesse ai protomiti dell'epoca (v. capitolo 6 dell'epitome) costringeva anche coloro per i quali erano palesemente falsi ad adeguarsi a essi come se fossero comunque veri!

L'autore accenna poi ha una specificità romana: la capacità di assimilazione di schiavi e stranieri. Non ho ancora scritto un mio pezzo sulle cause della caduta dell'impero romano ma uno dei fattori principali fu secondo me proprio la mancata assimilazione di intere popolazioni, come i goti, ai quali fu comunque permesso di entrare all'interno dell'impero.

Inizia poi una parte interessantissima della premessa dove si confronta il libero cittadino romano con quello greco. Come detto fra i romani era molto più facile essere/divenire cittadini liberi, addirittura un singolo padrone poteva rendere liberi i propri schiavi, mentre in Grecia il processo era molto più laborioso. Superficialmente la società romana apparirebbe quindi più giusta di quella greca ma se si analizzano bene le complessioni (v. capitolo 3.3 dell'epitome) delle due società ci si accorge che l'effettivo potere e l'effettiva libertà del cittadino romano erano inferiori a quelli di un greco libero: ad esempio in Grecia i cittadini liberi erano più rari ma avevano diritti politici effettivi; a Roma erano più comuni ma solo i ricchi avevano reali poteri politici. Scrive l'autore: «A Roma, soltanto i membri dell'aristocrazia senatoria, sostenuti dalla ricchezza, del prestigio e dalle clientele, sarebbero pienamente cittadini, nel senso greco del termine.»

Un altro paragrafo che mi ha colpito è il seguente. L'autore conclude il confronto fra cittadino libero romano e greco traendo la seguente conclusione generale: «La politica non è soltanto esercizio pieno di diritti politici teoricamente posseduti in misura uguale da tutti i cittadini... ...è anche consenso e stabilità del consenso, partecipazione emotiva, speranza.»
Ecco, alla luce di quanto ho scritto nell'epitome io “traduco” tale passaggio con: “Il potere politico (ma anche gli altri poteri) necessitano di stabilità sociale che si ottiene promuovendo e sostenendo gli specifici protomiti dell'epoca affinché la maggioranza delle persone crede nelle realtà multisoggetive da essi create”.

Conclusione: questa mia ultima “traduzione” non sembrerà avere molto senso a chi non ha letto la mia epitome... beh, ho scritto tale documento proprio per poter esprimere concetti più complessi di quelli consentiti da un semplice pezzo! Se volete approfondire l'argomento basta che scarichiate e leggiate il relativo PDF...

Nota (*1): e questo è evidentemente un mito (v. capitoli 2 e 3 v. capitolo 2° dell'epitome) che spiega e legittima la piena uguaglianza degli ex schiavi con gli altri cittadini romani.
Nota (*2): come spiegato nel capitolo 5.1 dell'epitome difficilmente chi ha qualcosa da perdere vorrà correre rischi.

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