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martedì 23 settembre 2014

FNHM 2/?

Questa è la seconda puntata di questa breve serie e, come accennato nel pezzo precedente, sarà interlocutoria. Probabilmente quasi priva di senso letta da sola...

Non ritrovavo più i miei vecchi appunti: ricordavo che erano su un quaderno ma non lo vedevo perché era finito sotto un mucchio di CD. Comunque alla fine ce l'ho fatta: si tratta di tre paginette scritte a ruota libera nel 2010, credo nell'estate. Ero al mare dai miei zii e mi appuntavo le idee che mi venivano in mente. Rispetto a quanto ricordavo divago un poco e lo stile non mi piace molto: per questi motivi mi prendo la libertà di modificarlo leggermente (*1) anche se non vi aggiungerò idee nuove.

Ricordo ai miei lettori che propongo questo brano per evidenziare una strana caratteristica della mia personalità che mi permette di dissociarmi dalla realtà con una certa facilità. Con “dissociare” non intendo “confondere”, “non riconoscere”, “rimpiazzare” ma semplicemente fare un passo indietro, cambiare il mio punto di vista sulla realtà, non vederla più attraverso i miei occhi ma da lontano. Non mi sento più protagonista, il centro intorno al quale tutto gira, ma mi vedo come un attore su un palcoscenico.
Ovviamente la situazione che descrivo nel brano è più ampia e, quanto sopra esposto, sarà solo parte del racconto. Aggiungerò fra parentesi quadre i miei commenti attuali ed evidenzierò in neretto parole o passaggi significativi.

Quando cammino da solo, a sera, fra la gente mi sento a mio agio. Non mi importa di essere osservato. [interessante effetto “occhio di bue” evidenziato nel corso di psicosociologia] Se sono con i miei zii invece provo imbarazzo: cosa dedurranno di me le persone che incrociamo? E poi il mio nome viene ripetuto continuamente dalla zia a voce altissima: la zia non parla urla.
Per me il nome è importante e non mi piace che estranei ne vengano a conoscenza. “Nomen omen” dicevano gli antichi: la conoscenza del nome dà potere sulla persona. E non dimentichiamo nella cabala l'importanza centrale del nome di Dio...
Comunque sia, odio essere chiamato in pubblico col mio nome.
Quando sono in compagnia devo recitare una parte: me stesso o, meglio, quello che ci si aspetta da me stesso. Se sono solo invece non devo recitare. Pensino ciò che vogliano chi mi guarda e sorride: io sorrido a mia volta.
Dopo un po' che cammino fra la gente divento melanconico. Immagino [ma avrei potuto scrivere “vedo con distacco”] la vita delle persone che incontro, capisco i loro ruoli e le loro relazioni, ne intuisco i caratteri. Io invece mi sento sempre più estraneo da questo mondo: non vedo nessuno mio simile né mi riconosco negli altri. Un'entità [da notare che non uso il termine “persona” o “individuo”: sono spersonalizzato] che non ha una sua collocazione come tutti gli altri. Tutto sommato ne sono fiero, dopotutto questo sembrerebbe essere il mio destino, però mi sento anche un poco triste.
La coppietta ingenuamente felice mi fa tenerezza mentre invidio il padre che vigila sui suoi bambini. Altre volte è il contrario: il padre mi fa tenerezza e invidio la coppietta. Dipende da come “spira” il mio umore.
Fingo quando credo di essere me stesso? [chiaramente questa dissociazione crea molti dubbi e domande]
Cerco di interpretare una parte? [cioè quando sono veramente “io”? Quando mi osservò da lontano o quando sono “nel mio corpo”?]
Perché è così importante rispettare le aspettative che le persone hanno di me? [buona domanda!]
Sono forse un debole? [Versione leggermente diversa della perenne domanda se io sia o meno coraggioso: v. ad esempio Coraggio e paura]
Non ho abbastanza forza da imporre la mia volontà, non agli altri, ma a me stesso? [La forza di fare ciò che si vuole: di nuovo il problema di essere prigionieri delle aspettative altrui.]
Avete visto “Lost”? L'insipido protagonista ha tatuato sulla spalla la frase “cammina fra noi ma non è uno di noi”. Ecco, io provo esattamente questa sensazione: cammino fra voi ma non sono uno di voi...


Rileggendolo avverto nelle mie parole anche un filo di esaltazione. È chiaro che questa dissociazione porta a una alterazione delle percezioni esterne che, mi pare, si raffinino mentre l'effetto sul mio umore è variabile. Intendiamoci, la fase di “distacco” è di per sé fredda e neutrale ma, una volta terminata, la situazione cambia. Direi che prevalentemente il mio umore diventa melanconico ma poi può assumere varie sfumature.

Anche per questo pezzo non c'è una vera conclusione. Il suo scopo è solo quello di evidenziare una mia caratteristica usando un testo scritto in tempi non sospetti. Il pieno valore delle parti in neretto sarà comprensibile solo al termine di questa serie di pezzi: ma almeno, dal prossimo articolo, sarà svelato il significato dell'acronimo del titolo!

Nota (*1): in realtà non ho cambiato quasi niente. Anzi ero tentato di tagliare le parti “fuorvianti” ma poi la mia consueta onestà intellettuale mi ha spinto a non censurare niente.

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