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mercoledì 22 febbraio 2012

Ledificio (1/10)

Con questo post inizio a pubblicare il racconto che ho scritto e di cui ho accennato in un paio di corti. Di solito mi piace correggere, correggere e ricoreggere quello che scrivo ma incoraggiato dal'entusiasmo della mia beta-tester Brigitte, a cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti, ho deciso di rompere gli indugi.
Per questo è altamente probabile che sia rimasto ben più di qualche errore isolato: se ne trovate qualcuno fatemi sapere che, zitto zitto, lo correggerò!
Come al solito ogni commento è benvenuto...

Nota: il titolo è provvisorio: non mi ero posto il problema di come intitolare questa storia e, solo adesso, mi rendo conto di quanto "Ledificio" faccia schifo...

-= 1 =-

Sono passati giorni ormai, o forse secoli, non lo so...
Tutto è grigio, immutabile e vuoto: un vuoto così enorme e assoluto che opprime l'animo annullando ogni volontà. Ciò che più mi manca è la luce calda e vivida del sole: qui è l'aria stessa ad essere illuminata ma si tratta di una luce plumbea, fredda e malata che tinge di un grigio malsano ogni cosa.
Per mesi ho vagato, solo per inerzia, lungo questi corridoi silenziosi esplorandone le stanze enormi: ma non mi illudevo più di trovare una scala o, meglio ancora, una finestra.

Ma adesso ho una speranza: qualcuno sa dove mi trovo e cercherà di aiutarmi. Da parte mia, come deciso, scriverò queste memorie nella speranza di fornirgli degli indizi utili alla mia salvezza. Cercherò di procedere con la massima chiarezza nel narrare questa vicenda e se, come spero, questa mia testimonianza raggiungerà il suo destinatario, egli potrà giudicare da solo se si tratti delle fantasie di un folle o di un fenomeno fisico solo apparentemente inspiegabile.

Quella sera maledetta ero con due amici: Gianluca, uno di essi, aveva superato un esame a ingegneria ed eravamo usciti tutti insieme a festeggiare. Poiché appena due giorni prima aveva rotto con la sua fidanzata, avevamo deciso che era l'occasione perfetta per prenderci una sbronza colossale da poter raccontare negli anni a venire. Verso le undici eravamo a zonzo nella mia macchina carica di birre. Vagavamo senza meta per le stradine isolate poco fuori dalla città... Avevamo bevuto abbastanza, forse troppo. Massimiliano aveva pure provato a convincerci a prendere qualcuna delle sue pasticche ma non eravamo così fuori di testa...
Non ricordo di chi fu l'idea. So solo che tutti la facemmo subito nostra con quell'entusiasmo euforico indotto dall'alcool. Il vecchio edificio non era lontano: potevamo vederne la sua massa, di un nero senza tempo, che si stagliava sullo sfondo scuro della collina poco distante. Sembrava che ci chiamasse e, forse, era davvero così.
Da anni era abbandonato, in attesa di lavori di ristrutturazione che non partivano mai. Tutto il suo perimetro era stato recintato per tenere lontani i “non addetti ai lavori”. In un luogo così isolato, senza luci né occhi indiscreti, non ci volle molto tempo per trovare un punto da dove scavalcare facilmente la recinzione. Sempre ridendo e vociando, uno a uno, con la bottiglia in mano, superammo l'ostacolo che del resto era più simbolico che reale.

Davanti a noi stava l'Edificio che guardato da pochi metri di distanza, col naso all'insù, sembrava immenso. Simile a un gigante che, accovacciato sul fianco della collina, scruta in silenzio le luci della città sottostante: forse ne anela la vita, forse il colore o forse i suoni ed è con intensità malevola che osserva ogni particolare pronto ad afferrare l'occasione propizia. Non ricordo le sensazioni che provai ma sospetto che la compagnia dei miei amici e il calore dell'alcool non mi permettesse di percepirne la sua gelida atmosfera. Fossimo stati poco più sobri non avremmo potuto non notare che essa, da sola, bastava a tenere lontani barboni, immigrati irregolari o altri senza fissa dimora...

Non conosco i dettagli della storia dell'edificio: solo grazie a vaghi ricordi scolastici so che nel medioevo era stato un monastero, poi un convento, poi un orfanotrofio, poi un ospedale e infine una scuola.
Ma è probabile, molto probabile, che su una collina di per sé così amena, con i suoi olivi e la natura tutta, e così vicina a una città già da millenni considerata tale, per queste ragioni è probabile dicevo, che il convento fosse stato edificato su una chiesa a sua volta sorta su un tempio pagano dedicato a chissà quale divinità dimenticata e, forse, ancora fremente di rancore.

Era Massimiliano che ci guidava: con voce impastata farfugliava di crimini avvenuti in una particolare stanza al secondo piano. Capii che era stato uno dei suoi professori di Giurisprudenza a parlargliene, ma non intesi i dettagli: oramai l'alcool stava facendo il suo effetto e dovevo stare attento a camminare per non inciampare. Gianluca non parlava, già da un po' era entrato in una fase triste della sbornia piena dei sospiri del suo cuore infranto ma, da come barcollava, non doveva stare meglio di me.

Il primo ingresso che trovammo era bloccato con delle assi inchiodate e tutte le finestre avevano delle solide sbarre metalliche. Così, un po' a tentoni e un po' incespicando, facemmo il giro arrivando sul retro dell'edificio dove, finalmente, trovammo una porta aperta.

Era buio ma la luce della luna entrava dalle finestre (quasi tutte con i vetri sfondati) e permetteva di distinguere piuttosto chiaramente gli ostacoli più grossi.
Massimiliano ci guidava, non so come ma sapeva dove andare: camminammo lungo il corridoio illuminato dall'incerta luce lunare fino ad arrivare a delle scale. Era buio pesto ma, incitati dalla nostra guida, salendo i freddi gradini di pietra a quattro zampe, giungemmo al piano superiore.
Nel frattempo una brutta sensazione mi stava scendendo dentro: paura mista a uno strano malessere che attribuii all'alcool. Fossi stato solo avrei cercato di tornare indietro ma, in quel momento, preferivo la compagnia dei miei amici piuttosto che arrischiarmi a muovermi da solo all'interno dell'edificio.

A questo punto i ricordi del percorso seguito si fanno più vaghi: sicuramente, prima di salire ancora, dovemmo attraversare qualche stanza e, forse, un breve corridoio con delle vetrate su un cortile interno. Oramai mi limitavo a seguire la nostra guida troppo confuso per stare attento a dove passavamo.
Finalmente giungemmo a un'altra scalinata: un'unica finestrella, una sorta di feritoia, faceva entrare un minimo di luce; eppure, nell'oscurità totale sembrava un faro abbacinante.
Arrivammo al secondo piano, a un piccolo ingresso: Massimiliano presa la prima porta a destra, poi a sinistra e poi persi il conto delle svolte...
Anzi, io e Gianluca dovemmo gridargli di aspettarci perché, nonostante la forte penombra, si era quasi messo a correre.
Infine Massimiliano si fermò, tutto fremente, davanti a una grande porta a doppie ante: mentre ci avvicinavamo ci faceva cenno di sbrigarci e quando giungemmo alle sue spalle disse solo: “È qui!”. Poi aprì la porta e noi lo seguimmo.

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